La seguente ricerca intitolata “I cibi del passato: memorie di una cultura popolare”, è il risultato ottenuto da una serie di interviste, da me effettuate, ad un campione di circa 10 donne anziane di Rotondella. La cucina di questo paesino collinare situato a 576 m sul livello del mare, della provincia di Matera, affondava le sue radici nei costumi semplici della popolazione. Alla base della gastronomia rotondellese c’era, si, l’allevamento e l’agricoltura; ma c’erano, soprattutto per tanta gente, le risorse naturali, quali erbe selvatiche, la cui raccolta era legata alle stagioni, esse davano gusto e corpo alle minestre; ed animali selvaggi.
Le mie informatrici sono state molto disponibili a parlarmi e a descrivermi in modo abbastanza dettagliato, ma quasi sempre in dialetto, quelli che erano i cibi di un tempo di cui oggi si ignora l’esistenza. Grazie alla loro collaborazione, sono venuta a conoscenza di ricette che attualmente non vengono più preparate. Ma la cosa che più mi ha affascinata è scoprire come tante piante selvatiche, oggi calpestate, e come alcuni fiori, che io da bambina amavo raccogliere, erano un tempo considerati ottimi da gustare.
Le preparazioni gastronomiche che prevedevano l’uso di verdure spontanee erano generalmente molto semplici e rispecchiavano una situazione di alimentazione relativamente povera. Da quanto mi è stato riferito è facile dedurre che in passato l’alimentazione variava, prima di tutto, sulla base dello stato sociale; inoltre determinante era la distinzione tra i giorni festivi ed i giorni feriali.
Durante le festività (la domenica, Natale, Carnevale, Pasqua, la festa patronale) erano molto utilizzate la pasta di casa, condita con il ragù ed abbondante pecorino grattugiato, e la carne.
Quindi, la cucina quotidiana era soprattutto vegetariana perché i vegetali, almeno nei giorni non di festa, erano preponderanti sulla carne ed ancor di più sul pesce.
Si trattava di una cucina povera ma genuina (sottolineano le mie informatrici), nata dal poco e dalla creatività delle massaie, semplice ed essenziale, ma particolarmente gustosa e saporita: una cucina povera perché tradizionalmente legata alla realtà rurale; semplice ed essenziale perché fatta di pochi ingredienti, facili da trovare. Le modalità di consumo e le parti più frequentemente usate delle piante erano in funzione del periodo di raccolta e finalizzate all’uso ottimale di queste risorse alimentari a basso costo. Queste erbe spontanee si prestavano nella dieta quotidiana agli usi più svariati, dal contorno, al condimento, a pranzi veri e propri.
Le ricette mi sono state descritte nella semplicità e nella genuinità degli ingredienti utilizzati per le portate, ma oserei quasi dire nella loro grandezza, proprio perché negli anni in cui queste signore sono cresciute ci si accontentava di ciò che la natura, la terra incolta offriva, senza molta scelta di gusto, di sapori, insomma senza sentir ripetere per ogni cosa “questo mi piace….questo non mi piace!!!”, come accade tra la gente di oggi.
Un momento simpatico è stato quando, durante l’intervista, una signora ha iniziato a parlarmi anche di tutti i ricordi che le tornavano alla mente; in questo caso mi sono limitata ad ascoltare perché trovavo molto interessante vedere come una ricetta, piuttosto che un’altra, potesse suscitarle ancora tante emozioni e come riuscisse a riferirmi un accaduto del suo passato come se lo stesse vivendo in quel determinato attimo. Nel dialogare con loro ho notato, comunque, che solo una delle signore mentre mi descriveva i cibi del suo “tempo” (termine ricorrente nel linguaggio delle signore, perché così indicano il loro passato), si è lasciata andare completamente ai ricordi più intimi, mentre le altre sono state molto attente a rispondere alla mia richiesta di descrizione delle pietanze che erano solite preparare in quegli anni in cui esisteva un rapporto diretto tra l’uomo e la natura.
I nomi delle verdure selvatiche ricavati nell’intervista mi sono stati riferiti in dialetto ma di seguito ho cercato di riportare il nome corrispondente in italiano con una breve spiegazione delle ricette preparate fra le più note e di alcune delle piante spontanee anche la fotografia.
Per iniziare abbiamo i tadd’ ri cim’ (simile alla rapa), verdura con piccoli fiori gialli che si trova nelle terre abbandonate o lungo le strade. Attorno a questi fiori fuoriescono delle foglie, che sono la parte commestibile della pianta. Venivano raccolte le foglie più tenere e bollite in acqua salata, poi veniva fritte con olio, aglio e peperoni rossi essiccati, in precedenza, al sole. Oppure, una volta bollite, queste foglie venivano usate come ingredienti per la frittata con uova, formaggio e salame. Di solito queste pietanze venivano consumate a pranzo perché ritenute difficili da digerire.
Una pietanza della sera (perché ritenuti digeribili) erano invece i znurr’ (carciofo selvatico circondato da spine). Questa pianta è comune in pascoli. Si usava ripulire il fiore fino alla parte tenera per spezzettarlo e conservarlo sottolio. Mentre le foglie pulite degli aculei, si lasciavano cuocere in acqua bollente e poi conditi con sale, aglio, olio crudo e spezie.
Poi ancora u cardon’ (cardo), pianta erbacea perenne, è presente su ruderi e lungo i bordi delle strade. Le foglie venivano private delle spine e utilizzate come verdura cotta in brodo (per eliminare il sapore amaro), con carne e spezie; o lessati e poi conditi con olio crudo e sale; mentre il fusto veniva tagliato a pezzettini e poi fritto. C’era anche una sorta di leggenda su questa pianta ossia: la notte di San Giovanni, il 24 giugno, il fiore veniva lasciato sulla finestra, se il mattino seguente questo era rifiorito allora era di buon auspicio per la famiglia altrimenti no se restava chiuso.
Poi i cardedd’ pianta perenne presente in incolti o presso le stalle. Il fusto e le foglie venivano attentamente puliti per eliminare le spine, comunemente usata come verdura lessata o come componente di minestre. O ancora preparata con olio, aglio e peperone rosso intero. Prima si soffriggeva il tutto e poi ad un certo punto, tolto il peperone dall’olio bollente, veniva aggiunta la verdura lessata in precedenza. Questa pietanza si usava gustarla soprattutto a pranzo perché ritenuta nutriente e quindi serviva a dare maggiore forza ai lavoratori per il resto della giornata.
I s’napin’, tipo di verdura campestre con foglie larghe e fiori gialli che in primavera vengono fuori da capolini situato all’apice dei rami. Si prendeva la parte tenera della pianta e la si cuoceva direttamente in olio bollente con aglio, peperone rosso macinato e sale. Oppure lessato in acqua bollente e poi cotti con l’uovo.
Abbiamo ancora i iet’ (bietola selvatica con fusto duro e di colore violaceo e foglie alterne), cresce spontaneamente in terreni umidi e lungo le strade di campagna; viene raccolta in primavera – inizio estate. Foglie e fusto si prestavano a diversi impieghi, venivano lessati ed utilizzati come verdura condita con olio, limone o aceto, o passati in padella con aglio, olio e peperoncino; spesso entravano anche nella composizione di minestre e minestroni, insieme ad altre erbe spontanee.
Frequentemente, però, questa verdura venivano usata come ripieno dei falahoni(prodotto da forno tipico rotondellese); dopo averla lavata, tagliata a pezzettini la verdura veniva insaporita con olio, sale, peperone rosso in polvere e uvetta.
Ancora troviamo u sarajong (asparago pungente). Piccolo arbusto con fusto generalmente legnoso; presente in macchie, boschi. A differenza dell’asparago coltivato, quello selvatico aveva un sapore più amaro. Le signore di Rotondella erano solite raccogliere la parte tenera dei fusti, lessarli e utilizzarli come verdure durante la primavera. Frequentemente venivano impiegati per preparare della squisite frittate con uova, formaggio fresco e salsiccia. Conditi con pomodoro erano usati per insaporire sughi per condire la pasta e risotti. Questa pianta oltre che in campo alimentare veniva usata anche in quello medicinale per l’ azione diuretica.
Poi ancora i sparji ra vrusk’ . Di questa “erba brusca”comune in prati falciati e concimati, le parti impiegate per la preparazione di pietanze erano le foglie tenere. Quest’ultime prima venivano cotte e poi utilizzate come ingredienti per minestre e frittate.mentre con le radici e le foglie meno tenere veniva preparato un decotto.
A c’cercula (cicerchia: leguminosa con bacco simile ai piselli e chicchi piccoli come lenticchie). Cresce spontanea nelle fessure delle rocce. Usata come condimento per la pasta fatta in casa; bisognava metterla a bagno nell’acqua la sera prima per poi cuocerla il giorno successivo in acqua salata. Dopodiché veniva soffritta, in un tegame, con cipolla, olio, pomodoro a pezzettini e alloro. Chi lo desiderava insaporiva la pietanza con del peperoncino in polvere.
Poi abbiamo a malva pianta con foglie larghe e fiorellini viola;cresce spontanea lungo le strade di campagna e in incolti. Questa erba vaniva usata soprattutto per preparare il decotto con l’aggiunta di mele, noci, mandorle e alloro. Il preparato era utilizzato come sciroppo per la tosse, proprio perché aveva effetti balsamici. Mentre se bollita con l’aggiunta di camomilla a mazzetti, la Malva veniva data ai bambini in caso di insonnia.
I sucamel’ pianta spontanea con fiori a forma di campanelli rosa. Il fiore veniva tenuto in bocca a mo’ di caramella, perché lasciava un sapore dolce.
U zucchr’ pianta con foglie larghe e porose. Lo stelo ripulito e sminuzzato veniva tenuto in bocca allo scopo di ripulirla dopo un abbondante pasto.
A c’tugn’ (cotogna), frutto simile alla mela usato molto per la preparazione di marmellate.
Sono venuta a conoscenza di altre ricette di cui l’ingrediente principale erano le erbe spontanee;di queste che elencherò in seguito,però, non ho potuto arricchire la descrizione con la testimonianza fotografica come per le precedenti.
Tra queste specie selvatiche troviamo a marogh’ (ravanello selvatico), pianta comune in ruderi, orti. Le foglie ed i fusti, raccolti in primavera e autunno, erano utilizzati come verdura cotta con la carne e talvolta anche nelle insalate crude, in alternativa alla rucola. Le radici, invece, venivano cotte o grattugiate come aromatizzante. Questa erba spontanea è accompagnata da un detto “non m’ coggj s’ non iaie ioggj” (non raccogliermi se non hai olio), perché la preparazione prevedeva un uso abbondante di olio.
Poi a pappacerva, pianta che cresce tra le fessure dei muri. La sue foglie di sapore acre venivano mangiate crude perché avevano proprietà antinfiammatorie.
Ancora u f’nucchiastr’ (finocchietto selvatico),comune in incolti. Le foglie con aroma dolce intenso erano utilizzate crude ad insalata o cotte, per insaporire minestre (insieme ad altre specie selvatiche quali cicoria), frittate. Mentre i semi venivano impiegati come aromatizzanti per carni, soprattutto suine (tipicamente per la salsiccia). In campo cosmetico il decotto di foglie veniva utilizzato come ammorbidente della pelle.
Un’altra erbetta selvatica le cui foglie e fusti erano utilizzati crudi per insalate miste a cui conferivano un sapore piccante era a prucchiazz’. Era utilizzata anche cotta soprattutto per minestre.
Un alimento caratteristico dei periodi poveri era u mastruss’, pianta erbacea somigliante alla rucola ma con foglie più strette e lunghe. Era presente tutto l’anno. Si mangiava cruda, senza alcun condimento, accompagnata al pane.
Troviamo ancora u pruvliz’, erba selvatica che cresce in incolti o zone sabbiose. Con fusto eretto e foglie pelose. Di questa pianta, in seguito ad una grande abbuffata, si masticavano le radici perché avevano proprietà digestive.
Infine era possibile gustare come frutta a pumaredd’ e i pir’ ri prain’. La prima era un piccolo frutto selvatico a metà tra una pera e una mela; il periodo di raccolta avveniva tra luglio e agosto e oggi purtroppo non nasce più. I pomi venivano consumati crudi o preferibilmente cotti e zuccherati (sia lessati che al forno). Venivano anche impiegate per confezionare marmellate e bevande fermentate come il sidro. Mentre i pir’ ri prain’ era una pera molto piccola e rara perché maturava solo ad agosto e la raccolta durava circa un mese. I frutti venivano utilizzati freschi, facendo completare la maturazione, dopo la raccolta, su letti di paglia; o preferibilmente come frutta cotta o sciroppata. Si impiegavano anche per marmellate e come aromatizzanti di liquori.
Altre pietanze ritenute ottime da gustare dalle mie informatrici erano i sarac’ cu i p’pun’ cruck’ salacche che una volta pulite venivano conservate in un recipiente di creta e ricoperte di sale per essiccarle. In seguito ripulite dal sale venivano fritti nell’olio bollente con i peperoni rossi secchi. Era una pietanza servita, di solito, a pranzo poiché essendo particolarmente salata, le salacche provocavano una forte sete e quindi di notte difficilmente si sarebbe riusciti a riposare bene.
Altri piatti ricordati con rimpianto sonomi p’pone ‘a savazzizzedde (peperoni essiccati con salsiccia), per i contadini rotondellesi erano un caratteristico pranzetto onnicomprensivo. Questa variante dei peperoni fu inventata da un rotondellese che non voleva dividere il proprio pezzo di salsiccia con i compagni di lavoro. Allora egli pensò bene di nascondere la salsiccia entro un peperone, perciò, i compagni quando gli chiedevano cosa stesse mangiando (solo e in disparte), quello rispose, tenendo ben schermato dal peperone la salsiccia, u p’pone ‘a savazzizzedde.
Poi ancora si preparava sangh’ e p’pun’ (sangue di agnello e capretto con peperoni). Il sangue veniva lasciato riposare per un giorno, dopodiché lo si faceva bollire in acqua fino a quando non diventava denso. A parte, in padella, si lasciavano cuocere i peperoni con cipolla, olio e sale; a metà cottura veniva aggiunto il sangue denso fatto a pezzetti. Questo piatto si gustava maggiormente durante le feste natalizie o pasquali perché erano i periodi in cui avveniva la macellazione di questi animali.
Altra piatto era u pan’ cott’ il pane raffermo, invece di essere buttato via,veniva condito con la farina, olio, sugna (grasso del maiale sciolto) e pepe. Il tutto veniva mescolato con acqua bollita e dopo essersi amalgamato bene veniva servito. Le signore rotondellesi preparavano questa pietanza per i loro bambini.
Filomena Cosentino